PENTONE E LA MADONNA DELLE TRACHE
Pentone
è un paesino poco distante dal capoluogo catanzarese (circa 15 km) ai piedi
della Sila piccola. Poco prima si può notare un Santuario, detto di Termine,
immerso nel verde e nella quiete, a cui è legata un’interessante storia.
I dati a disposizione, sono veramente scarsi e la piccola ricerca da me attuata non ha cambiato di molto le conoscenze su questo avvenimento, purtroppo anche a causa del poco tempo disponibile. Sperando che un domani ci si possa impegnare maggiormente a proposito, comincio a raccontare ciò che da secoli si tramanda oralmente.
“Termine” era una piccola contrada di Pentone, anzi secondo le ricerche fatte dal dott. De Laurenzi (Studioso e appartenente alla famiglia di procuratori che per anni hanno avuto la cura di mantenere il culto della Madonna e di solennizzare con cerimonie e feste popolari il giorno a Lei dedicato), poteva essere un piccolissimo paese, come ci farebbero pensare le carte geografiche del Vaticano del 500 dipinti da Danti e quelle del 600 della Calabria Ulteriore, ma nessun rudere o altri elementi confermano le indicazioni delle suddette carte.
In questa località, un tempo boscosissima, una contadinella, Maria Madia del “Casale di Pantona”, stava raccogliendo legna. All’improvviso dagli anfratti di una roccia (secondo alcuni qui ella si riparò per un acquazzone), vide una forte luce e i lineamenti di una bella signora che le diede un panno per asciugarsi dal sudore ed un pane per sfamarsi, dicendole “Qui è la mia dimora, qui deve rimanere la mia immagine”. Dapprima, fu dipinta un’icona a ricordo dell’accaduto e poi fu eretta la chiesa. Secondo altre fonti, un’icona raffigurante la Vergine col Bambino, sarebbe stata trovata nel luogo miracoloso dalla stessa contadinella e portata al Parroco di Pentone che la collocò nella chiesa. Da qui scomparve misteriosamente per riapparire a Termine, dove la stessa Madonna espresse chiaramente il desiderio che il quadro restasse li, alle “Trache” (dal greco “trachius”, roccia con riferimento all’apparizione) dove sarebbe dovuto sorgere il Santuario.
Non possiamo fornire con esattezza la data dell’apparizione. Probabilmente nel 1100. Comunque “Termane”, come è stato detto, è riportata nelle carte del 500, per qualcosa di più notevole di dirupi o boschi selvaggi….
Negli ultimi anni del 600 e nella prima metà del 700 la Madonna era venerata in una cappella che viene definita nei documenti come “venerabile cappella delle grazie eretta dentro la parrocchia del casale di Pentone”. Le notizie del registro dei conti dal 1692 al 1755 non fanno ancora alcun cenno alla Chiesa di Termine. Solo nel 1760 la dicitura cambia. Per la prima volta si parla della “venerabile chiesa filiale di S. Maria delle grazie eretta nella circonferenza di detto casale, loco detto delle Trache”.
È vero che nei documenti citati non si parla della Chiesa delle Trache che pur esisteva, o della processione sulle montagne, ma è anche vero che la procura sovvenzionava un “romito”, che, senza dubbio aveva il compito di custodire una chiesa rurale e quale altra chiesa rurale poteva esistere se non quella dedicata ala Vergine apparse? Infatti fino al 1940 circa, il santuario fu sempre custodito da un laico che veniva chiamato “u romitu”, cioè l’eremita. Di conseguenza, già prima del 1760 esisteva una chiesetta alla cui custodia si era provveduto sempre con il romito, in seguito a questa data essa fu ricostruita e riaperta al culto.
In effetti l’esistenza del Santuario prima del 1760 è documentato da una targa nella quale si legge: “questa Chiesa fu riedificata e rifatta a cura dei procuratori Don Carmelo Merante, Don Giuseppe Antonio Colao, nonché dal Parroco Don Francesco Capilupi, dall’anno 1759 al 1762”. I termini “riedificata e rifatta” ci confermano l’esistenza di essa anteriormente al 1759. Molto probalbimente la piccola chiesa era in cattive condizione anche a causa dei frequenti terremoti che nel periodo danneggiarono la Calabria.
L’Altare, era scolpito in parte nella roccia e sosteneva una nicchia nella quale era dipinta sull’intonaco l’icona della Vergine. Verso il 1890, il dipinto appariva deteriorato e quindi lo si restaurò, purtroppo con esiti negativi: quella era la possibile icona miracolosa. Si dipinse un altro quadro fino a quando, nel 1910 il celebre pittore Garibaldo Gariani onorò il luogo sacro con un suo dipinto. Oltre alla chiesa vi era l’alloggio del romito. Nel 1938 il procuratore Don Salvatore Mazzuca decise di far sorgere al posto del vecchio Santuario uno più ampio e la nicchia con il quadro fu rimossa dall’antico luogo e incastonata nel muro absidale. Nel 1990 Don Erminio Pinciroli, abbellì ulteriormente il luogo e ricostruì in una cappella la scena dell’apparizione.
Precedentemente sui muri erano appesi exvoto, stampelle. Tra i miracoli più ricordati vi è quello dello storpio che abbandonò le grucce, lo scrittore calabrese G. Patari sofferente alla età di 8 anni di postumi di frattura complicata o quello del Sig. Celia di Catanzaro che cieco riebbe la vista. Durante la seconda guerra mondiale, nel travagliato periodo della liberazione, Pentone era una roccaforte di armamenti bellici e probabile nascondiglio degli angloamericani. Il paese doveva essere bombardato dai Tedeschi, ma all’improvviso, si stese un manto di nebbia sotto gli occhi degli aggressori e ciò impedì il bombardamento. Questo venne considerato come un miracolo: il manto della Madonna aveva salvato il suo paesino. Allo stesso periodo risale un frammento di bomba, che lanciata sul Santuario non esplose; “il reperto miracoloso” è ora custodito come prova del prodigio. Altro avvenimento narrato è quello di alcuni operai che presso il Santuario uccisero un agnello facendo schiamazzi, un fulmine al ciel sereno li colpì. Annualmente in un determinato periodo, sul pavimento ricompariva la macchia di sangue dell’agnello, fino a quando le fondamenta vennero rifatte.
Emerge, in quest’ultimo miracolo, l’ambiguità della divinità che aiuta l’uomo, dispensa grazie, ma può anche punire. Proprio per questa ambivalenza, l’uomo rispetta, teme il divino e tramite riti cerca di propiziarne l’intervento a suo favore. Ambiguità, che richiama inoltre, la contiguità tra divinità “celesti” e “sotterranee”: il sangue (con tutti i suoi riferimenti simbolici) che riemerge dal pavimento, appunto dal basso; l’affronto alla divinità pagata con la morte.
L’agnello ucciso, è un richiamo “all’offerta sacrificale”, è così anche gli operai fulminati, esprimono, come sottolinea la Dott.sa Bellio, riproponendo Girard, la “necessità di una vittima sacrificale che rinsaldi il rapporto tra comunità e divinità”, tra uomo e Dio.
Ogni anno, la seconda domenica di settembre, viene celebrata la festa. Ma già dalla fine di luglio ci si prepara con i “7 marti e termine”; ogni martedì infatti, alle 4 del mattino suona la campana e la gente percorre i 3 Km per arrivare al Santuario, dove vengono celebrate diverse Messe. Questo fino al secondo martedì di settembre. Altra usanza ora non più attiva, era quella di riunirsi in gruppi nei vari rioni, per cantare le lodi a Maria e recitare il Rosario. I 4 giorni precedenti la domenica della festa, si assiste ad uno spettacolo unico: “e luminere”: l’illuminazione delle creste dei monti, che fanno da scenario al Santuario. Si accendono tanti batuffoli imbevuti di nafta e appesi ad un fil di ferro che percorre le montagne. Dice il Dott. De Laurenzi, che fino al 1922 si usava accendere sulla stessa linea, frasche di rami rigogliosi, una prova della antica origine del culto. L’accensione dei fuochi in segno di festa è una usanza contadina antichissima. Dai documenti si può affermare che le luminarie si accendevano già nei primi anni dell’800.
Alle 20:00, quando la gente esce dalla Chiesa dove ogni sera viene celebrata la messa, si possono ammirare dal paese le colline di fronte illuminate e in particolare la lettera m di Maria e il simbolo della croce, poste ai punti più alti delle montagne.
Un’ulteriore manifestazione di fede è quella inventata dal Canonico Don Mario Talarico nel 1950: la litania. Giovani fanciulle, sfilano, per il corso principale sorreggendo simboli che ricordano quelli della Litania Lauretana, è cosi che ad esempio, “stella del mattino”, sarà rappresentata da una fanciulla dalla tunica chiara e con la stella ricamata sul petto, o ancora “rosa mistica” sarà una dolce ragazza dai bei lineamenti che osserva una rosa tra le mani. Alla fine del corteo vi è una ragazza che dovrebbe avere una certa somiglianza con la statua della Madonna venerata, preceduta da una bimba che interpreta la contadinella a cui apparve la Vergine, con la legna sulla testa, il pane e il panno datele in dono.
Un tempo, momento rilevante della festa, era la fiera che nel 1846 venne prolungata di tre giorni; intorno al 900 la fiera si sviluppò così tanto da ostacolare il traffico e da fare allargare la strada nel suo tratto iniziale. Essa ebbe una notevole importanza economica, specie per i manufatti di artigianato calabrese: le bancarelle del “casu du quagghiu” cioè formaggio bacato, i “mustazzoli” di Soriano Calabro, i “cavaluzzi” di Carlopoli e “cullurelle” dolci di produzione casalinga o come ricorda il Dott. De Laurenzi nel suo libro, le “zagarelle”, dall’Arabo “zahar” nastro, fettucce di vario colore che i devoti facevano benedire e attaccavano o al polso o all’occhiello. I venditori per misurare le fettucce gridavano “misurelle misuramu!”. A questa fiera quindi arrivavano da lontano tantissime persone, ambulanti o meno.
La domenica, è forse il giorno più toccante per i devoti. Verso le 5 del mattino, la banda musicale fa “il giro” del paese quasi come una sveglia che ricorda che alle 6 bisogna destarsi. Infatti a quell’ora la statua della Madonna esce dalla chiesa di Pentone, dov’è custodita tutto l’anno, per poi ripercorrere quasi la stessa strada che compì Maria Madia. Sono le “colle colle”. Ella percorre le montagne che da Pentone portano a Termine (quelle stesse delle Luminarie) seguita dalla processione con pellegrini e pentonesi. Arriva nella sua dimora a Termine, dove rimane fino al pomeriggio quando, poi, posta su un carro trionfale, sul quale vi è la “bambina-contadinella”, visita le frazioni vicine di S. Elia e Visconte, per arrivare infine a Pentone, preceduta dalle motociclette della polizia con sirene accese, tra gli applausi generali. Vi è quindi la cosiddetta “confrunta”: l’incontro cioè tra la Madonna e il protettore del paese, S. Nicola. Una volta essa avveniva con S. Giuseppe e si svolgeva nella parte più bassa del paese, in una piazza che da questa manifestazione trasse il nome: “Piazza della Madonna delle grazie”.
Dopo questo incontro simile ad una danza tra le due statue, si forma un’unica processione che percorre il paesino fino all’arrivo in chiesa dove è celebrata la Messa. A mezzanotte in punto, fuochi d’artificio concludono la giornata. Tuttavia, la conclusione effettiva avviene il lunedì sera, dopo “la festa dell’emigrante”, dedicata ai tanti emigranti pentonesi, alcuni dei quali ritornati per l’occasione e pronti a ripartire. Una festa popolare in cui si mescolano momenti di allegria (per la specie di “corrida” che si svolge) e di nostalgia per il ricordo delle feste passate, della trascorsa gioventù e per la consapevolezza di dover ripartire. Il giorno seguente, infatti, il paese sembra svuotato e calato in una strana tristezza: i parenti vanno via, l’estate finisce, la “parentesi della festa della madonna” si è chiusa, per riaprirsi l’anno successivo.
Il nome, come si è visto è legato all’apparizione “negli anfratti di una roccia”. Qui mi vorrei collegare alla tesi del Prof. Sole che ne “Il Cammino verso la grande Madre” affronta il tema della simbologia della roccia: l’impenetrabilità, quindi la verginità che si ricollega alla Madonna, vergine delle vergini; alla durezza, cioè al dolore di cui la Madre ne è massima espressione; ma la roccia è anche simbolo di protezione e di sicurezza, quella che l’uomo ricerca costantemente nei luoghi miracolosi.
Anche a Pentone, come per altre storie di apparizioni, il luogo ha un ruolo predominante; questi, da solo, aldilà dello stesso prodigio, potrebbe considerarsi un miracolo…. Immerso nel verde, nel silenzio, nella quiete un punto che come dice il Prof. Sole, sembra collegare il terreno con l’ultraterreno, l’umano con il divino. Questa zona, potrebbe essere considerata un “non-luogo” che non è in cielo, ma sembra non essere immerso nel fragore terreno, non è nè uno nè l’altro, un posto senza storia e senza tempo, senza appartenenza, anche lo stesso nome Termine è sibillino. È una zona liminale (per usare un termine caro a Van Gennep) che ci fa sentire stranamente bene, sospesi in un’altra dimensione. Termine è un limen, una soglia da attraversare per raggiungere il divino, per ritornare poi alla vita quotidiana, anche se arricchiti e diversi. È il luogo del contatto: l’uomo si avvicina a Dio e la divinità è scesa in terra. Termine è il limen, tra divino e umano, conosciuto e sconosciuto, che ci fa rifletter sulla nostra identità, che ci affascina con la sua contraddittorietà. Qui, anche la natura emerge bella ma boscosa, selvaggia, perché è contemporaneamente meravigliosa e inquietante, per il mistero in essa contenuto, per la potenza che scaturisce e spesso ricorda all’uomo la sua fragilità.
In questo limen, si colloca anche l’emigrante. Egli non è più di Pentone, perché non ostante questi sia il suo paese d’origine, viene considerato “u canadese”, “l’americanu”; la stessa cosa avviene nel paese in cui si è trasferito: egli è un italocanadese, un italoamericano, ma nello specifico nessuno dei due. Ogni luogo, sembra essere quello non esattamente proprio. L’emigrante sta tra due luoghi, è al limen; così come il romito, una figura che mi ha molto interessato. Egli badava alla chiesa dove viveva, però, non veniva chiamato sagrestano o in altro modo: era l’eremita, che si colloca nella soglia tra società e non-società, cultura e natura, accudisce la chiesa ma si isola dal mondo, quasi una figura mitica, che fa da tramite con il divino. Così come al confine tra lecito e illecito, tra bene e male vi è il brigante. Secondo la trasposizione teatrale di Don Mario Talerico, c’era un capo brigante (Giosafatte Tallerico) che con i suoi aiutanti aveva un covo proprio nelle zone boscose dell’evento miracoloso. Il brigante, qui assume un ruolo positivo, come spesso capita: difende la contadinella e il padre che era stato accusato ingiustamente e per ripicca da parte di un pretendente della giovane, di aver fatto “la spia”. Verosimile o di pura invenzione, vi è un forte richiamo alla figura emblematica e contraddittoria dei briganti, che vivevano sulle nostre colline.
Scenario del luogo è la montagna, che come sappiamo ha una valenza fondamentale. Vista come incantevole ma anche come barriera, punto di isolamento quindi di povertà. Immagini che rispecchiano solo in parte la verità che è molto più complessa. Infatti, basta poco per capire come essa costituisca “l’anfiteatro” di incontri tra persone provenienti da altre zone e di ogni rango sociale, come appunto evidenzia il Prof. Teti. Basti pensare alla fiera citata, momento in cui mercanti, artigiani, vendevano prodotti artigianali delle loro zone, o la stessa processione per la quale arrivavano tanti pellegrini da lontano. Era un momento di scambio economico, culturale, di contatto, di legame con l’altro. Inoltre la montagne è anche risorsa produttiva, agricola, di sostentamento. La zona pentonese è rinomata per la produzione di olio, di castagne e in passato per la lavorazione della seta. Anche tutto questo è montagna. E non è un caso che l’apparizione e la festa si svolgano in questo ambiente. Anche le luminarie, viste in questa ottica potrebbero essere un antico rito contadino con cui coloro che lavoravano nelle boscaglie comunicavano con i paesani, o un modo per onorare la montagna luogo importante e quasi sacro.
“Montagna come cuccagna”, “altrove” anche alimentare, dove appunto fuggiva lo stesso brigante che si sottraeva così, alla fame del paese, realizzando i bisogni sentiti dai suoi compaesani. La sua è un’indipendenza politica, sociale altresì alimentare (tuttavia per un’analisi completa e priva di mistificazioni, non dobbiamo scordare anche i suoi stenti, la sua vita difficile, i crimini compiuti).
Già la stessa apparizione, ha come aspetto centrale il cibo: la Vergine, dona un pane, simbolo di carità, nonché richiamo evidente al sacrificio di Cristo per la redenzione umana, rappresentato dal pane a ricordo della sua ultima cena e del suo mandato. Il pane è il corpo di Cristo. Inoltre la missione mediatrice e dispensatrice di Maria è ulteriormente sottolineata da questo gesto nella apparizione. Ma questo dono è qualcosa di più. La storia religiosa è ricca di episodi in cui la divinità interviene pragmaticamente, istantaneamente a combattere la fame della sua gente. Esempi noti sono i miracoli di San. Bruno o San. Gerardo Maiella.
La festa, si sa, è il rovesciamento del quotidiano, dell’abitudinario, è lo strappo, alla regola, è “l’altrove” culturale, sociale e alimentare: si può mangiare in abbondanza. Infatti il venerdì e il sabato della settimana festiva si usa mangiare i cavoli con la carne, le melanzane per culminare la domenica con i maccheroni o la pasta di casa, appunto alimenti delle occasioni importanti.
A Marylake, in Canada, la comunità pentonese, a settembre, ripercorre i momenti più salienti della festa paesana. Legame tra le due comunità sono i canti popolari molto importanti, inventati dagli antenati pentonesi in onore della vergine, ma anche l’uso di cucinare appunto le stesse pietanze pentonesi. Questo ha a che fare proprio con quella “ricostruzione” nei luoghi di immigrazione di cui parla il Prof. Teti. Il cibo rappresenta il proprio mondo d’origine, nello specifico la festa dei propri padri. “il paese uno e il paese due non riescono a separarsi, ma non riescono più a ricongiungersi” (Teti). Certo, va specificato come si ripropongono soprattutto gli alimenti che nel paese venivano consumati eccezionalmente, durante le feste appunto; insomma i cibi “sognati”. Il nesso, è, comunque quello alimentare. Basti pensare agli emigrati, che venuti in vacanza a Pentone, per il ritorno trasportano nella loro valigia “i preziosi doni”, il cibo, simbolo del luogo natio e dei propri affetti. Questo scambio che si ripete ogni anno tra emigrati e paesani, sottolinea il valore identitario del cibo. A Marylake, coloro che non sono tornati a Pentone ricostruiscono la festa nell’aspetto religioso, alimentare, culturale per sentirsi vicini ai compaesani, ai parenti, ad un passato che non c’è più. Di certo, non rimpiangono la fame ma ciò che le stava intorno…. Anche la convivialità, in Canada come a Pentone è un modo per sentirsi uniti, un mezzo di coesione familiare e sociale, per scoprire e riscoprire se stessi, gli altri, la propria identità, la propria etnicità. Carne cavoli, melanzane… il loro sapore, il loro odore sono il tramite del ricordo, il mezzo attraverso cui, come in un fantastico viaggio, si ritorna nel passato o a Pentone e lo si fa proprio, ancora per una volta.
Ines Sirianni
Al primo solo si destala cittadella montana è un bel giorno e risuona tra i monti la dolce campana mentre sul monte roccioso va il campagnolo gioioso passa e si inchina alla sua madonnina dicendole piano così: RIT: madonnina di Termine non ti devi scordare di me tra tanti mie lavori il più dolce pensiero è per te canta il cuore mio qua su: madonnina di Termine con te questo cuore sicuro sarà l’ultimo raggio di sole muore suoi monti silenti è un tramonto di sogni che sfuma nei cieli ridente. Tra mille stelle d’argento Posa ciascuno contento Sente nel cuore un sussulto d’amore Sospira nel pianto così. RIT |
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Bellio, A. 2003, da “Storia dell’acqua” di Teti V., pag. 91
De Laurenzi, V. 1960, “Madonna di Termine”.ù
Sole, G. 2000, “Il cammino verso la Grande Madre”
Teti, V. 2002-2003, “Viaggi, emigrazione, religione”, pp 590-595