Pentone è un paesino poco distante dal capoluogo catanzarese (circa 15 km) ai piedi della Sila piccola.

Poco prima di arrivarci, si può notare un Santuario, detto di Termine, immerso nel verde e nella quiete; a questo luogo è legata un’interessante storia, tramandata da secoli prima oralmente, poi attraverso vari documenti.

“Termine” era una piccola contrada di Pentone; secondo le ricerche fatte dal Dottor De Laurenzi (studioso e appartenente alla famiglia di procuratori che per anni hanno avuto la cura di mantenere il culto della Madonna), Termine poteva essere un piccolissimo borgo, come ci fanno pensare le carte geografiche del Vaticano del ‘500 dipinti da Danti e quelle del ‘600 della Calabria Ulteriore. Nessun altro elemento conferma le indicazioni delle suddette carte, anche perché proprio in quel periodo, un grande incendio distrusse alcuni archivi vaticani.

Tuttavia, ricordiamo che fino agli anni sessanta del ‘900 la zona di Termine era abitata da alcune famiglie pentonesi. Quindi non è da escludere che già in tempi molto antichi Termine fosse popolato e sicuramente fosse zona di passaggio.

In questa località ai tempi boscosa, la contadina, Maria Madia del “Casale di Pantona” stava raccogliendo legna, all’alba di un nuovo giorno lavorativo.

All’improvviso, dagli anfratti di una roccia, dove si riparò per un acquazzone, vide una forte luce e i lineamenti di una bella signora. Questa le diede un panno per asciugarsi dal sudore e un pane per sfamarsi, dicendole: “Qui è la mia dimora, qui deve rimanere la mia immagine”.

Dunque, in loco dapprima fu dipinta un’icona a ricordo dell’accaduto e poi fu eretta la chiesa.

Secondo altre fonti, un’icona raffigurante la Vergine col Bambino venne trovata nel luogo miracoloso dalla stessa contadinella e portata al Parroco di Pentone, che la collocò nella Chiesa di Pentone. Da qui scomparve misteriosamente per riapparire a Termine, dove la stessa

Madonna espresse chiaramente il desiderio di rimanere là, alle “Trache” (dal greco “trachius”, roccia con riferimento all’apparizione) dove sarebbe sorto il Santuario.

Non possiamo fornire con esattezza le prime documentazioni sulla data dell’apparizione, che probabilmente risale al 1100. Comunque “Termane” era una località degna di nota, tanto da essere riportata nelle carte vaticane per motivi di origine religiosa.

Negli ultimi anni del ‘600 e nella prima metà del ‘700, la Madonna era venerata in una cappella che viene definita nei documenti come “venerabile cappella delle grazie eretta dentro la parrocchia del casale di Pentone”.

Le notizie del Registro dei conti dal 1692 al 1755 non fanno ancora alcun cenno alla Chiesa di Termine.

Solo nel 1760 la dicitura cambia: per la prima volta si parla della “venerabile chiesa filiale di S. Maria delle Grazie eretta nella circonferenza di detto casale, loco detto delle Trache”.

È vero che nei documenti citati anteriori al 1760 non si parla della Chiesa delle Trache o della processione sulle montagne, ma è anche vero che secondo i documenti della Procura ecclesiastica, si sovvenzionava un “romito”; costui aveva il compito di custodire una chiesa rurale e quale altra chiesa poteva esistere se non quella dedicata alla Vergine apparsa?

Fino al 1940 circa, il Santuario fu sempre custodito da un laico che veniva chiamato “u romitu”, cioè l’eremita.

Di conseguenza, già prima del 1760 esisteva una chiesetta alla cui custodia si era provveduto e solo in seguito a questa data, essa fu ricostruita e riaperta al culto.

In effetti, l’esistenza del Santuario prima del 1760 è documentato da una targa nella quale si legge: “Questa Chiesa fu riedificata e rifatta a cura dei procuratori Don Carmelo Merante, Don Giuseppe Antonio Colao, nonché dal Parroco Don Francesco Capilupi, dall’anno 1759 al 1762”. I termini “riedificata e rifatta” ne confermano la precedente esistenza. La piccola chiesa era in cattive condizione, anche a causa dei frequenti terremoti che in quel periodo danneggiarono la Calabria.

L’altare era scolpito in parte nella roccia e sosteneva una nicchia, dentro era dipinta sull’intonaco l’icona della Vergine.

Nel 1890, il dipinto appariva deteriorato e quindi lo si restaurò, purtroppo con danneggiamento perenne ed esito negativo: quella era la probabile icona miracolosa.

Si dipinse un altro quadro ma nel 1910 il celebre pittore Garibaldo Gariani volle onorare il luogo sacro con una sua opera.

La struttura semplice inglobava, oltre alla chiesa, l’alloggio del romito.

Nel 1938 il procuratore Don Salvatore Mazzuca decise di far sorgere al posto del vecchio Santuario uno più ampio e la nicchia con il quadro fu rimossa dall’antico luogo e incastonata nel muro absidale. Nel 1990, Don Erminio Pinciroli abbellì ulteriormente il luogo e fece ricostruire in una cappella la scena della contadinella e della Vergine, proprio nel punto specifico dove Ella apparve.

Precedentemente ai restauri ultimi, sui muri erano appesi molti ex voto a testimoniare la straordinarietà del posto.

Tra i miracoli più ricordati vi sono quello dello storpio che abbandonò le grucce, lo scrittore calabrese G. Patari sofferente all’età di 8 anni di postumi di frattura complicata o quello del Signor Celia di Catanzaro, che cieco riebbe la vista.

E ancora, durante la seconda guerra mondiale, nel travagliato periodo della liberazione, Pentone era una roccaforte di armamenti bellici e probabile nascondiglio degli angloamericani.

Il paese doveva essere bombardato dai Tedeschi, ma all’improvviso si stese un manto di nebbia sotto gli occhi degli aggressori e ciò impedì il bombardamento. Questo venne considerato come un miracolo: il manto della Madonna aveva salvato il suo paesino.

Allo stesso periodo risale un frammento di bomba, che lanciata sul Santuario non esplose; “il reperto miracoloso” è ora custodito come prova del prodigio.

Altro avvenimento narrato è quello di alcuni operai, che presso il Santuario uccisero un agnello per pranzare, facendo schiamazzi. Un fulmine a ciel sereno li colpì. Annualmente sul pavimento ricompariva la macchia di sangue dell’agnello, fino a quando le fondamenta vennero rifatte.

Emerge, in quest’ultimo miracolo, l’ambiguità della divinità: aiuta l’uomo, dispensa grazie, ma può anche punire.

Proprio per questa ambivalenza, l’uomo rispetta, teme il divino e tramite riti cerca di propiziarne l’intervento a suo favore.

Questa ambiguità richiama la contiguità tra divinità “celesti” e

“sotterranee”: il sangue (con tutti i suoi riferimenti simbolici) che riemerge dal pavimento, appunto dal basso; l’affronto alla divinità pagata con la morte.

L’agnello ucciso è un richiamo “all’offerta sacrificale”.

Così anche gli operai fulminati esprimono, come sottolinea la Dottoressa Alfonsina Bellio, riproponendo Girard, la “necessità di una vittima sacrificale che rinsaldi il rapporto tra comunità e divinità”, tra uomo e Dio.

Morte e vita. Abissi e luce.

Infatti, la seconda domenica di settembre viene celebrata la festa della Madonna di Termine.

Già dalla fine di luglio ci si prepara con i “ sette marti e termine”; ogni martedì alle quattro del mattino suona la campana e la gente percorre da Pentone i tre km per arrivare al Santuario, dove vengono celebrate diverse Messe. Questo fino al secondo martedì di settembre. Altra usanza, ora non più attiva, era quella di riunirsi in gruppi nei vari rioni per cantare le lodi a Maria e recitare il Rosario.

Luce: i tre giorni precedenti alla domenica di festa, si assiste ad uno spettacolo unico: “e luminere”, cioè l’illuminazione delle creste dei monti, che fanno da scenario al Santuario.

Volontari salgono sulle colline, dopo aver trascorso qualche ora nella condivisione e nella gioia, accendono tanti batuffoli di stoffa imbevuti di nafta, appesi ad un fil di ferro che percorre le montagne. A sera, quando la gente esce dalla Chiesa dove viene celebrata la messa, si possono ammirare dal paese le colline di Termine di fronte illuminate, in particolare la lettera “ M” di Maria e il simbolo della croce, poste sui punti più alti.

Il De Laurenzi attesta che fino al 1922 si usava accendere sulla stessa linea frasche di rami rigogliosi, una prova dell’antica origine del culto. L’accensione dei fuochi in segno di festa è un’ usanza contadina antichissima. Dai documenti si può affermare che le luminarie si accendevano già nei primi anni dell’800.

Un’ulteriore manifestazione di fede è quella inventata dal Canonico Don Mario Talarico nel 1950: la litania.

Giovani fanciulle sfilano per il corso principale sorreggendo simboli che rappresentano quelli della Litania Lauretana. Così, ad esempio, “Stella del mattino” sarà rappresentata da una fanciulla luminosa dalla tunica chiara e con la stella ricamata sul petto o ancora “Rosa Mistica” sarà una dolce piccola donna, dai bei lineamenti osservante una rosa tra le mani.

Alla fine del corteo, arriva una ragazza che dovrebbe avere una certa somiglianza con la statua della Madonna venerata, preceduta da una bimba che interpreta la contadinella a cui apparve la Vergine, con la legna sulla testa, il pane e il panno datele in dono.

Un tempo, momento rilevante della festa era la fiera che nel 1846 venne prolungata di tre giorni; intorno al ‘900 la fiera si sviluppò così tanto da ostacolare il traffico e da dover costringere all’attivazione di lavori per allargare la strada nel suo tratto iniziale.

Ebbe una notevole importanza economica, specie per i manufatti di artigianato calabrese: le bancarelle del “casu du quagghiu” cioè formaggio bacato, i “mustazzoli” di Soriano Calabro, i “cavaluzzi” di Carlopoli e “cullurelle” dolci di produzione casalinga e come ricorda il De Laurenzi le “zagarelle”: dall’Arabo “zahar” nastro, erano fettucce di vario colore che i devoti facevano benedire e attaccavano o al polso o all’occhiello. I venditori per misurare le fettucce gridavano:“ Misurelle misuramu!”

Pentone era un crogiolo di incontri e scambi.

La domenica è forse il giorno più toccante per i devoti. Verso le cinque del mattino, la banda musicale fa “il giro” del paese quasi come una sveglia che ricorda che alle sei bisogna destarsi.

A quell’ora la statua della Madonna “esce” dalla chiesa di Pentone, dov’è custodita tutto l’anno, per poi ripercorrere quasi la stessa strada che compì Maria Madia. Sono le “colle colle”.

Il tragitto attraversa le montagne che da Pentone portano a Termine (quelle stesse delle Luminarie) seguita dalla processione con pellegrini e pentonesi. La Madonna arriva nella sua dimora a Termine, dove rimane fino al pomeriggio quando viene posta su un carro trionfale su cui vi è la “contadinella”, una bimba interpretante Maria Madia. Sul carro, poi, visita le frazioni vicine di Sant’Elia e Visconte per arrivare infine a Pentone tra gli applausi generali.

Vi è quindi la cosiddetta “confrunta”: l’incontro tra la Madonna e il protettore del paese, S. Nicola.

Un tempo, fino alla fine del ‘800, “a confrunta” avveniva con San Giuseppe e si svolgeva nella parte meridionale del paese, in una piazza che da questa manifestazione trasse il nome: “Piazza della Madonna delle Grazie”.

Dopo questo incontro simile ad una danza tra le due statue, ripetuta tre volte, si forma un’unica processione, che si snocciola nel paesino fino all’arrivo nella Chiesa madre, dove è celebrata la Messa. A mezzanotte in punto, fuochi d’artificio chiudono la giornata e la settimana mariana. Tuttavia, la conclusione effettiva avviene il lunedì sera, dopo “la festa dell’emigrante”, dedicata ai tanti emigranti pentonesi, alcuni ritornati per l’occasione e pronti a ripartire.

Un momento popolare in cui si mescolano momenti di allegria (per la specie di “corrida” che si svolge) e di nostalgia per il ricordo delle feste passate, della trascorsa gioventù e per la consapevolezza di dover ripartire. Ci si inebria di “radici”.

Il giorno seguente, il paese sembra svuotato e calato in una strana tristezza: i parenti vanno via, l’estate finisce, la “parentesi della festa della madonna” si è chiusa, per riaprirsi l’anno successivo.

TRACHE

Il nome, come si è visto, è legato all’apparizione “negli anfratti di una roccia”.

Il Professor Giovanni Sole ne “Il Cammino verso la grande Madre” affronta il tema della simbologia della roccia: l’impenetrabilità, quindi la verginità che si ricollega alla Madonna, Vergine delle vergini; alla durezza, cioè al dolore di cui la Madre ne è massima espressione; ma la roccia è anche simbolo di protezione e di sicurezza, quella che l’uomo ricerca costantemente nei luoghi miracolosi.

IL LUOGO

Anche a Pentone, come per altre storie di apparizioni, il luogo ha un ruolo predominante; questi, da solo, aldilà dello stesso prodigio, potrebbe considerarsi un miracolo….

Immerso nel verde, nel silenzio, nella quiete, un punto che come dice il professor Sole, sembra collegare il terreno con l’ultraterreno, l’umano con il divino. Questa zona potrebbe essere considerata un “non-luogo” che non è in cielo, ma sembra non essere immerso nel fragore terreno, né uno né l’altro, un posto senza storia e senza tempo, senza appartenenza, anche lo stesso nome Termine è sibillino.

È una zona liminale (per usare un termine caro a Van Gennep), che ci fa sentire stranamente bene, sospesi in un’altra dimensione. Termine è un limen, una soglia da attraversare per raggiungere il divino, per ritornare poi alla vita quotidiana, anche se purificati, forse diversi. Per tornare alle radici.

È il luogo del contatto: l’uomo si avvicina a Dio e la divinità è scesa in terra. Termine è tra divino e umano, conosciuto e sconosciuto, ci fa riflettere sulla nostra identità, ci affascina con la sua contraddittorietà. Qui, anche la natura emerge bella ma boscosa, selvaggia, perché è contemporaneamente meravigliosa e inquietante, per il mistero in essa contenuto, per la potenza che scaturisce e spesso ricorda all’uomo la sua fragilità.

In questo limen si colloca anche l’emigrante.

Egli non è più di Pentone, il suo paese d’origine dove viene chiamato “u canadese”, “ u torinese”, “ u mericanu”; la stessa cosa avviene nel posto in cui si è trasferito: egli è un italo-canadese, un italo-americano, entrambi, ma nello specifico nessuno dei due. Ogni luogo sembra essere quello non esattamente proprio. L’emigrante sta tra due luoghi, è al limen; così come il romito. Questi badava alla chiesa dove viveva, però, non veniva chiamato sagrestano o in altro modo: era l’eremita, che si colloca nella soglia tra società e non-società, cultura e natura, accudisce la chiesa ma si isola dal mondo, quasi una figura mitica, che fa da tramite con il divino. Così, come al confine tra lecito e illecito, tra bene e male vi è il brigante. Secondo la trasposizione teatrale della leggenda, scritta da Don Mario Talerico, c’era un capo brigante (Giosafatte Tallerico) che con i suoi aiutanti aveva un covo proprio nelle zone boscose dell’evento miracoloso. Il brigante assume un ruolo positivo: difende la contadinella e salva il padre, accusato per ripicca da parte di un pretendente della giovane di aver fatto “la spia” contro i banditi. Verosimile o di pura invenzione, vi è un forte richiamo alla figura emblematica e contraddittoria dei briganti, che vivevano sulle nostre colline.

Scenario del luogo è la montagna, che come sappiamo ha una valenza simbolica fondamentale. Vista come incantevole ma anche come barriera. Immagini che rispecchiano solo in parte la verità che è molto più complessa. Altresì, la collina e la montagna costituiscono “l’anfiteatro” di incontri tra persone provenienti da diverse zone e di ogni rango sociale, come appunto evidenzia il professor Vito Teti.

Basti pensare alla fiera precedentemente citata, momento in cui mercanti, artigiani, vendevano prodotti artigianali delle loro zone, o la stessa processione per la quale arrivavano tanti pellegrini da lontano. Se l’evento prodigioso unisce, evidenziando l’uguaglianza tra gli esseri umani, la fiera è un momento di scambio economico, culturale, di contatto.

La montagna è anche risorsa produttiva. La zona pentonese è rinomata per la produzione di olio, di castagne e in passato per la lavorazione della seta. Tutto questo è montagna, attraversata, vissuta, considerata sacra. E non è un caso che l’apparizione e la festa si svolgano in questo ambiente.

Le stesse luminarie richiamano un antico rito contadino con cui coloro che lavoravano nelle boscaglie comunicavano con i paesani e purificavano lo spazio.

“Montagna come cuccagna”, “altrove” anche alimentare, dove appunto fuggiva lo stesso brigante che si sottraeva alla fame simbolica del paese, realizzando i bisogni sentiti dai suoi compaesani. La sua è un’indipendenza politica, sociale e alimentare (tuttavia per un’analisi completa e priva di mistificazioni, non dobbiamo scordare anche i suoi stenti, i crimini commessi per realizzare questo altrove). Montagna come spazio silenzioso, dove l’eremita custodisce la spiritualità e l’altrove sacro. Dove il divino-dentro e fuori di noi- è simboleggiato dalle luminarie, che è una sacralizzazione di momenti baccanti, l’antico richiamo alla cultura ancestrale e allo stesso tempo una preghiera commovente e potente per avvicinarsi a Dio. Come in uno specchio, le colline di Pentone e Termine si guardano, scoprendosi. Il rito del buio e della luce insegna e ricorda cosa vogliamo essere e scegliere.

CIBO E FESTA

La stessa apparizione ha come aspetto importante il cibo: la Vergine dona un pane, simbolo di carità, nonché richiamo evidente al sacrificio di Cristo per la redenzione umana, rappresentato dal pane a ricordo della sua ultima cena e del suo mandato. Il pane è il corpo di Cristo. Inoltre la missione mediatrice e dispensatrice di Maria è ulteriormente sottolineata dal suo gesto nell’apparizione. Questo dono è qualcosa di più.

La storia religiosa è ricca di episodi in cui la divinità interviene pragmaticamente, istantaneamente a combattere la fame della sua gente. Esempi noti sono i miracoli di San Bruno o San Gerardo Maiella.

Si potrebbe parlare a lungo del pane, elemento alimentare, culturale indissolubilmente legato alla società tradizionale. In questa sede, basti ricordare come questo bene primario precario, faticoso da avere, in virtù del raccolto da cui esso dipendeva, è comunque realizzazione piena del lavoro della gente.

Il pane ci ricorda il divario alimentare e sociale tra ricchi e poveri, padroni e contadini. I primi potevano accedere al “pane bianco”, i secondi, pur lavorando ininterrottamente per il pane, che poi andava sulle tavole dei benestanti, dovevano arrangiarsi, mangiare quello “nero”. La panificazione avveniva con ghiande, castagne, orzo, legumi, patate e dalla seconda metà del ‘700 anche con mais. Una vita ardua dove la fame è realmente vissuta dalla gente e il lavoro mira al sostentamento. Il sacrificio poteva essere metabolizzato con l’intervento divino. In effetti, la Vergine dona un panno per asciugare il sudore, simbolo del lavoro faticoso dei contadini.

La festa è il rovesciamento del quotidiano, dell’abitudinario, è lo strappo alla regola: si può mangiare in abbondanza.

Infatti, il venerdì e il sabato della settimana festiva si usa mangiare i cavoli con la carne, le melanzane, “ a minestra” fatta di diverse verdure, per culminare la domenica con i maccheroni o la pasta di casa, appunto alimenti delle occasioni importanti.

A Marylake, in Canada, la comunità pentonese ripercorre i momenti più salienti della festa paesana.

Legame tra le due comunità sono i canti popolari molto importanti, ideati dagli antenati pentonesi in onore della Vergine e le ricette per cucinare le pietanze della festa.

Questo ha a che fare proprio con quella “ricostruzione” nei luoghi di immigrazione di cui parla il Professor Teti. Il cibo rappresenta il proprio mondo d’origine, nello specifico la festa dei propri padri. Dice Teti: “Il paese uno e il paese due non riescono a separarsi, ma non riescono più a ricongiungersi” .

Si ripropongono da un lato gli alimenti che nel paese venivano consumati eccezionalmente, durante le feste appunto; insomma i cibi “sognati”. D’altro canto, si consuma ciò che viene coltivato, che si trova con più facilità e lo si rende speciale. Il nesso è comunque quello alimentare. Basti pensare agli emigrati, che venuti in vacanza a Pentone, per il ritorno trasportano nella loro valigia “i preziosi doni”, il cibo, simbolo del luogo natìo e dei propri affetti. Questo scambio che si ripete ogni anno tra emigrati e paesani, sottolinea il valore identitario del cibo. A Marylake, si ricostruisce la festa per sentirsi vicini ai compaesani, ai parenti, a un “senso del luogo”. Anche la convivialità è un modo per sentirsi uniti, un mezzo di coesione familiare e sociale, per scoprire e riscoprire sè stessi, gli altri, la propria identità, la propria etnicità.

A minestra, le melanzane… il loro sapore, il loro odore sono il tramite delle radici, il mezzo attraverso cui, come in un fantastico viaggio, si ritorna nel passato o a Pentone e lo si fa proprio, ancora per una volta.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Bellio, A. 2003, da “Storia dell’acqua” di Teti V., pag. 91 De Laurenzi, V. 1960, “Madonna di Termine”.

Sole, G. 2000, “Il cammino verso la Grande Madre”

Teti, V. 2002-2003, “Viaggi, emigrazione, religione”, pp. 590-595

Ines Sirianni

 

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